sabato 20 luglio 2013

VIAGGIO NEL SALENTO MAGICO / / / Recensione di Nicola de Paulis apparsa su Nuovo Quotidiano di Puglia di venerdì 17 luglio 2013

Un libro per l’estate Federico Capone racconta miti e vicende della terra della taranta. Un immaginario fatto anche da fate, streghe e orchi

La storia secolare del Salento magico
di Nicola De Paulis
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Chi oggi percorre la vecchia strada coperta da ulivi plurisecolari che nel Salento sud orientale da Giuggianello porta verso Palmariggi, è autorizzato a immergersi nel mito e immaginare che quegli ulivi maestosi fossero, un tempo, fanciulli messapi irrequieti e boriosi “mutati” in olivastri selvaggi dalle ninfe Epimelidi, legate a Dioniso, per averle derise e sfidate in una impari lotta a passi di danza.
Tutto nasce, meglio spiegarlo, da Nicandro di Colofone, autore greco della seconda metà del II secolo a C., che nella terra dei Messapi, presso un luogo chiamato “sassi sacri” (forse il Furticiddhu de la Vecchia – caratteristico masso a forma di fuso su cui esiste anche una leggenda che narra la battaglia fra Eracle e i Giganti ­– oppure uno dei tanti menhir del Salento), apparvero le ninfe Epimelidi che “guidavano le danze”. I fanciulli, abbandonando le greggi, si dissero capaci di far meglio. Ma le ninfe non gradirono l’affronto. La sfida ci fu, e i giovinetti, che avevano una maniera di ballare semplice e rozza, furono sconfitti. E le ninfe allora li punirono trasformandoli in alberi… Oggi il fruscio del vento sembra quasi una mesta voce proveniente dalla selva.
Questa leggenda, riportata anche da Ovidio, grande cantore del mondo classico, apre l’agile e dettagliato “Viaggio nel Salento magico – La terra e le storie”, un saggio divulgativo di Federico Capone (Capone Editore) con prefazione di Maurizio Nocera, un libro che racconta di folletti, streghe, fate, orchi e sirene, ma anche del venefico morso della tarantola, di fatti di vita quotidiana, di costumi e di superstizioni, con fiabe e filastrocche.
Il contenuto del libro conferma quanto la danza sia costante nella storia salentina. Nel capitolo “Il tarantismo”, Capone riporta passi di scrittori e studiosi di varie epoche, dal Medioevo in poi, come Goffredo di Malaterra (1100 circa) che fu il primo a citare il termine “tarantola”, o Girolamo Marciano di Leverano (1571-1628), o ancora Antoine Laurent Castellan (1772-1838) e Richard Craven, spesso citati da chi si occupa della materia, ma quasi mai letti nella loro versione originale, e soprattutto poco noti al grosso pubblico. Sono questi studiosi a documentare come il tarantismo (diffuso in tutto il Mediterraneo ed in Puglia in particolare) già dal ‘600, fosse elemento ben presente nella vita delle popolazioni rurali, tanto che viene da chiedersi: perché la Puglia? Perché il Salento? È davvero questa la “terra del rimorso” o il “serbatoio” isolato per millenni, che ha conservato riti dionisiaci arcaici?
Quando Ernesto De Martino condusse nel 1959 l’inchiesta (in particolare a Galatina) da cui scaturì il libro “La terra del rimorso”, rifiutò di collegare il tarantismo alle tradizioni classiche del dionisismo e del coribantismo, attribuendo al tarantismo musicale una origine medievale. Nel dibattito attuale sul tarantismo, si considera invece che le origini siano ben più antiche.
Tra le prove di questa tesi, le figure su un vaso appulo-lucano del III secolo a. C. che richiamano movimenti simili a quelli della pizzica salentina: una menade o baccante che, mentre batte un tamburello, danza con un satiro.
Ma da considerare ai fini di questo discorso, come riporta Capone, ci sono per esempio le leggende raccolte da Giuseppe Morosi nella Grecìa Salentina, le credenze e gli usi e le superstizioni narrate da Trifone Nutricati Briganti, Giuseppe Gigli e anche da Sigismondo Castromediano.
È proprio il duca Castromediano, per esempio, a raccontare la leggenda della fata di Cavallino, che abitava nei ruderi di un mulino, con tanto di testimoni. “I nostri avi – scriveva – credevano alle fate. Il nostro secolo non crede in nulla”.

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